Cisterna

31 maggio 2008

Adorata ignoranza

Aggiungere sibilo del vento per ottenre l'emblema della solitudineA Tehran non ci sono pub. Non ci sono bar. Non ci sono cinema. Non ci sono circoli. La musica è proibita. Trombare è vietato. Tehran è l’espressione suprema della città in cui rompersi i coglioni di domenica… anzi, di venerdì, perché in Iran il giorno festivo è il venerdì. La domenica è un giorno lavorativo qualunque.
Nemmeno in albergo c’è un minimo di vita… c’è una tale solitudine che mi aspetto da un momento all’altro di vedere correre nella mia camera spazzata dall’aria condizionata uno di quei cespugli rotolanti che si vedono nei film western. Macché. Nulla proprio. Cazzo, quando sei abbandonato anche dal cespuglio rotolante dei film western, sei proprio alla frutta!
Talmente alla frutta che ieri pomeriggio, mentre cercavo di costruirmi con mezzi di fortuna un cespuglio rotolante posticcio per alleviare la solitudine, mi squilla il telefono. Chi è?! Pronto cespuglio, sei tu?!?
No. Era l’attaché culturale dell’ambasciata dell’Olanda a Tehran. Un mezzo conoscente: un tipo che ho incontrato un paio di mesi fa. Mi invita a teatro.
Pronti! Non gli ho neanche dato tempo di finire i convenevoli che ero già pronto e pettinato.
Luogo dell’appuntamento? L’Università di Tehran. Boh.
Il quartiere universitario di venerdì è una specie di deserto nel deserto: non c’è davvero nessuno. Perfino la polvere è senza acari, perché gli acari mica sono stronzi, quelli il venerdì se ne vanno da qualche altra parte!
Compare l’attaché. Meno male: pensavo di aver spagliato posto. Ci dirigiamo insieme verso una mastodontica cancellata chiusa. Alcuni ragazzi vengono ad aprirci. La rappresentazione si sarebbe tenuta dentro l’Università. Ah, sì… dovevo immaginarmelo: nella Disneyland dei cagacazzo anche il teatro è proibito.
All’ingresso veniamo forniti di sgabelli da campeggio pieghevoli e di un breve riassunto in inglese dell’opera. Icarus. Una performance sulla ricerca della libertà.
La rappresentazione non si svolge su un palco, ma in un grosso magazzino nero e buio. Qua e là ci sono pezzi di scenografie e luci ad occhio di bue che illuminano l’area in cui ha luogo la scena. Gli spettatori (per la cronaca una trentina) si muovono liberamente nello stanzone, e posizionano la seggiola dove meglio credono.
Un’ora e mezza di spettacolo. Tutto recitato in farsi. Un'esperienza estremamente suggestiva e densa di emozioni. Indimenticabile, anche se non ci ho capito un cazzo. Praticamente come quando sono in Italia, ma qui ho la scusante di non conoscere la lingua. Ignorante giustificato. Ah… che posizione privilegiata. Mi sono divertito tantissimo.

23 maggio 2008

Dello strano fenomeno che spinge a completare l’album delle figurine

La vita è come un album di figurineLa mia scuola di paese nei primi anni ottanta. La mia classe. Non so se fosse così dappertutto, ma io e i miei compagni eravamo veramente un gruppo di pezzenti: vestiti ereditati dai fratelli maggiori, pantaloni consumati sulle ginocchia, toppe orrende, chiazze di inchiostro sulle dita, scarpe sgraziate sormontate da pantaloni corti… anche il profugo più disperato si sarebbe sentito un signore in mezzo a noi. E’ facile immaginare l’effetto prorompente che avesse l’uomo che ci porgeva all’uscita da scuola in regalo un album delle figurine. Gratis. A noi.
Era il classico album delle figurine da completare. Vuoto. Desolato direi. Ma sfogliandolo se ne percepiva l’immenso potenziale: i nomi delle squadre, i riquadri pronti ad ospitare i gagliardetti, gli spazi destinati a raccogliere le rose dei campioni ordinatamente schierate… i miei occhi di bambino vedevano oltre quegli spazi numerati. Percepivano un album di pregiatissima fattura, destinato ad essere un giorno esposto sopra il caminetto di casa, e ad essere mostrato con orgoglio agli amici. Un prezioso cimelio.
Le figurine erano l’unico ostacolo che si frapponeva tra il desolato album che avevo tra le mani, ed il sogno di gloria che mi prefiguravo.
Figurine. Figurine. Figurine. La psicosi delle figurine.
Mamma, per piacere, domani mentre vai a fare la spesa, mi compri le figurine? Sì. Sissì. Sono proprio indispensabili… servono per la scuola, lo ha detto la maestra.
Classica intramontabile scusa. Se non l’hai mai usata, non sei mai esistito.
Papà, mentre vai a prendere il giornale, mi prendi le figurine? Non dimenticarti, che mi servono.
A cosa?!? Boh…
Pronto, sto parlando con l’edicola? Per piacere, se passa di lì uno qualsiasi dei miei parenti, gli ricordi le figurine. Loro sanno.
Io non l’ho mai fatto per motivi spiccatamente economici, ma ricordo che i bambini più abbienti arrivavano ad assoldare anche un aereo da turismo che trascinava nel cielo uno striscione con la scritta …mi raccomando le figurine
Man mano che la collezione cresceva, la percezione della realtà si faceva più distorta, fino ad arrivare all’ultima figurina. Uno alla fine. Il delirio.
Avevo in mano un album quasi completo. Con tutti i gagliardetti. Tutte le rose. Le figurine speciali. Mi mancava solo Pruzzo. Non quello famoso. Un panchinaro della ternana. A me neanche me ne fregava un cazzo di Pruzzo. Però lo volevo.
Guarda che se ci pensi è strano avere tra le mani l’album praticamente completo, fruibile e piacevole da sfogliare, ma non essere soddisfatto. Che me ne frega di Pruzzo? Perché mi impedisce di godermi il mio album? Boh. Psicosi. No. La verità è che per un qualche fenomeno del cazzo uno non si accorge mai di ciò che ha, mentre percepisce benissimo quel che gli manca.
La cosa più incredibile è che dopo mille peripezie quell’anno completai l’album dei calciatori.
Inspiegabilmente non mi diede la soddisfazione sperata. Forse aveva qualche figurina attaccata storta. Forse si era sgualcito e non era più adatto ad essere esposto sul caminetto. Non so. Ricordo che nell’ultima pagina dell’album vi era riportato un regolamento, secondo il quale avrei potuto ricevere un pallone di cuoio spedendo l’album completo ad un certo indirizzo. A me il pallone di cuoio neanche piaceva. Era pesante. Duro. A me piaceva il Supertele, che costava meno del più insignificante e piccolo mucchietto di figurine passatomi tra le mani.
Se questo aneddoto fosse un film, vorrei che finisse con una inquadratura dall’alto. La telecamera che sale verticale sopra la mia testa.
La pioggia battente che si accanisce su un ambiente completamente scuro, al centro del quale io, bambino, stringo tra le mani un album inutile. Il vento a raffiche smorza il flebile fuoco del camino, e la fiamma traballante lancia qualche debole barlume di luce su una vecchia foto appesa sopra il camino: io e mi miei compagni di scuola. Un branco di pezzenti sorridenti. Al centro del gruppo un bambino che stringe fieramente sotto un braccio l’immancabile Supertele. Vai a fare in culo Pruzzo.
Titoli di coda